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Cittadini nel mondo, le esperienze di chi si trova all'estero per studio, lavoro e svago.

Cucina MONDIALE

Cucina MONDIALE

Mi capita ancora di assaggiare delle prelibatezze cinesi che hanno un che di familiare. Lasciando perdere gli spaghetti, che per quelli ormai è assodato che Cina e Italia sono sorelle, ci sono delle tipicità culinarie in Cina che mi sembrano una rivisitazione di qualcosa di italiano. Altroché tipiche. O forse il contrario…

Uno dei piatti più diffusi in Cina quanto altrettanto tipico in Italia, è la pasta ripiena. In Cina li chiamano (jiao zi) inglesizzato a dumpling, e tanto per intenderci noi li definiremmo ravioli. E in effetti, è lo stesso concetto con cui mia nonna la domenica preparava quella che lei chiamava “la pasta romagnola” o ravioli con ricotta e mortadella. In realtà di dumpling ce ne sono infinite forme, e a seconda se si cuociono nel brodo, nell’acqua, a vapore oppure fritti; a seconda se sono a mezzaluna, a pallina oppure a tortellino, hanno un nome diverso. Ma la procedura è la stessa e dentro troveremo sempre carne, più spesso di maiale, e quella specie di prezzemolo che si ama o si odia, il coriandolo. I dumpling più comuni sono dischi di pasta bianca (farina e acqua, no uova), tirati a mano nei ristoranti seri, che una volta imbottiti vengono chiusi a mezzaluna con una tipica pressione delle mani che rende il bordo ondeggiato.

I dumpling ormai sono una tappa fondamentale della mia settimana cinese. Invece sono ancora un po’ scettica sugli snack al mais. Ecco, una infanzia passata a mangiare patatine Dixi al formaggio, potrebbe crearmi forti traumi al confronto con lo snack al mais che si vende per le strade di Nanchino. In porzioni da scorta per la transumanza, le patatine cinesi sono sì una cottura che deriva dalla farina di mais, ma totalmente prive di sale. Insomma, non è possibile riempirsi la bocca di questi croccanti cornetti se poi quello che risulta sulle papille è l’imitazione scadente e scondita di decenni di piacevoli ricordi. Probabilmente, un Cinese in Italia sgranocchiando le Dixi in sacchetto, avrebbe bisogno di una cassa da 6 di acqua…

Veniamo al dolce. Non sono mai stata una fan dello zucchero filato, anche se da piccola era =luna park. In Cina non l’ho visto mangiare da tanti bimbi, piuttosto dai giovani. Alcuni creativi dello zucchero ne fanno composizioni colorate di qualunque forma. Ad ogni modo, c’è la sua aurea di magia anche attorno allo zucchero filato cinese, soprattutto se chi lo prepara è Master Chef.

Infine: dolci o salate? Non ne ho idea. Probabilmente io ci spalmerei la Nutella, probabilmente i Cinesi ci mettono il ragù. Qui la parte interessante delle crêpe è la procedura.

Ecco, se non sapete cosa sono i fluidi newtoniani, in questo video avrete un esempio di come il confine tra crêpe e viscosità magica sia superato: la perfetta massaia maneggia il fluido con una mano e ti prepara la crêpe sulla piastra con l’altra, mentre insegna alla nuova arrivata il minutaggio esatto da attendere, per cucinare una crêpe sottile quanto un foglio di grammatura 80. E senza sprechi. Una ninja insomma.

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francesi bevitori e cortesi

francesi bevitori e cortesi

I francesi non sono così freddi come si pensa. Sono persone accoglienti e calorose. Hanno solo un approccio diverso dal nostro nei riguardi dell'ospite.

Per esempio, immaginatevi di aver appena informato la mamma che domani vengono a pranzo due vostre amiche. Alt! Fermi tutti! Tutte le attività previste il giorno prima sono cancellate, la mamma si prende il pomeriggio di permesso perchè deve mettere in ordine casa (perchè tu e tua sorella avete una camera impraticabile!) e soprattutto deve preparare da mangiare. Allora, non ve lo sto neanche a dire che un semplice pranzo per una mamma italiana è formato da minimo tre portate. Trattasi solitamente di fiumi di tagliatelle fatte in casa condite con un ragù che ha sobbollito durante le ultime dodici ore, un arrosto con patate al forno e infine una crostata con marmellata di fichi raccolti proprio l'estate scorsa dietro casa.

Ecco, per una mamma francese le cose cambiano. Lei, per dimostrarti la sua ospitalità, ti prepara l'aperitivo.

Quindi, tu arrivi e entri in una casa discutibilmente mediocre (ho avvistato diverse volte gatti che camminano sui secchiai e calze sporche dietro ai divani) e ti fa accomodare in salotto, su un pouf scomodissimo. Sul tavolino rigorosamente senza tovaglia conti tre tartine, una a testa. Lei arriva e ti mostra fiera una bottiglia di vino rosso, tutta impolverata e ti dice che è un vino invecchiato che si sposa benissimo con il foie gras. Il vino, ovviamente, fa 15 gradi e la tartina insieme all'insalata mista che costituisce l'intero pasto non ti bastano per farti smettere di girare la testa. Però il fatto che abbiano aperta quella bottiglia con te, quel giorno, vuol dire che tu per loro sei importante e questa cosa scalda il cuore, anche se poi mentre torni a casa ti fermi a comprarti un panino.

 

Il vino in Francia è veramente qualcosa che non può mancare su nessuna tavola. Per loro il vino è un'arte, una scienza, una passione e un piacere. Bere un bicchiere di vino ascoltando musica jazz è per i francesi un rito ancestrale, come il caffelatte la mattina o lavarsi i denti prima di andare a letto. E' logico quindi come per esempio  sotto Natale i francesi si accalchino nei supermercati per accaparrarsi l'ultima bottiglia di champagne da 50 euro (la meno cara) mentre da noi la corsa è all'ultimo zampone. E, ça va sans dire, la guerra non è tra panettone o pandoro ma tra vino rosso fermo o vino bianco frizzante. 

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Passaggio ad El-Alamein (seconda parte)

Passaggio ad El-Alamein (seconda parte)

Ripercorro all’indietro la strada che va dal Sacrario a Quota 33, ossia la base dell’esercito italiano, per rintanarmi in un edificio che ospita il museo. Il luogo è fresco, silenzioso ed è al riparo dalla luce accecante del deserto. Nel museo c’è la storia della battaglia, le carte dei posizionamenti delle truppe italiane e tutte ciò che il colonnello Caccia Dominioni ha utilizzato per far sì che il suo progetto di Sacrario potesse diventare realtà. L’obiettivo della mia visita è il museo. Qualche giorno prima, una persona di mia conoscenza, che in seguito a quella battaglia, ha perso il padre, mi ha chiesto di potergli documentare la visita e di potergli inviare delle immagini con lo scopo di ricostruire l’ultimo periodo della vita del padre. Mi ha chiesto in particolare se trovavo delle immagini della divisione Trieste.

Infatti nelle stanze che ospitano le carte e i ricordi della battaglia, ho trovato tutto quello che questo mio conoscente da anni stava cercando: quando, di ritorno in città, gli ho inviato una mail con il resoconto della visita è stato molto contento. Usciti dal sacrario la visita di quel punto in mezzo al deserto non era terminata. Andiamo ad un punto di ritrovo dei poliziotti per prendere un te, insieme ad una nutrita compagnia di mosche, che visto il caldo si riparano al fresco del bar. Il tè è bollente e tutto concorreva a sentirmi come nei film hollywoodiani quando i protagonisti si trovano nelle prime città al confine con il Messico con attorno molti poliziotti.  Sono contenta di lasciare quel posto e di tornare in città, senza dimenticare di fare una sosta per il pranzo. Come già detto nella prima parte, nella zona è un susseguirsi di villette, moschee e di resort che aprono anche a pranzo. Ci fermiamo in un ristorante che ha la vista sul mare.

Un azzurro splendido che al Sacrario non potevo raggiungere perché transennato, e che ora posso anche fotografare. La pizza egiziana (che ha i peperoni e alcune spezie e che ho imparato a mangiare dopo essermi arresa davanti all’evidenza che non avrei mai trovato una pizza degna di questo nome) chiude la giornata nel deserto. Il ritorno ad Alessandria avviene a metà pomeriggio: il traffico è molto intenso e anarchico ma il clima è più fresco. Sono in tempo per la preghiera delle 17, ma tutto mi sembra un po’ diverso. Ho visto una testimonianza di quello che è stata la guerra anche in Nord Africa, delle atrocità che questa ha portato con sé, dei morti che non possono essere ancora seppelliti e di quelli che il mare non ha riportato più indietro.

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Passaggio ad El-Alamein (prima parte)

Passaggio ad El-Alamein (prima parte)

La costa mediterranea egiziana è un misto di deserto, sabbia e mare. E’ il punto dove il deserto si unisce all’acqua, quasi un paradosso se si pensa a cosa questi due elementi rappresentino. Ed è ancora più strano pensare che quella striscia di terra è stata protagonista di sanguinose battaglie durante la seconda guerra mondiale. Quando si esce da Alessandria per percorrere il deserto, lo scenario cambia completamente. Grandi costruzioni, villaggi turistici, condomini, moschee. Un susseguirsi di villette e moschee, che in fase di costruzione hanno lo stesso colore del deserto. Le monarchie sunnite investono da tempo sulla costa mediterranea: costruiscono case, alberghi e moschee, tutte sul mare, come al gioco del monopoli quando hai le proprietà dello stesso colore. Per un giorno lascio perdere la tesi (non voglio arrivare al confine con la Libia, anche se sono su quella direzione) e accompagno il direttore del Sacrario Militare, che ha il suo ufficio al Consolato.

Tanti chilometri nel deserto per arrivare ad El-Alamein, battaglia spesso citata nei libri di storia, una delle tante disfatte dell’Italia alleata dell’Asse. Il Sacrario ha ospiti e noi andiamo ad accoglierli. Sono i parenti delle vittime della battaglia che ogni anno vanno a portare un fiore. Ci sono ancora molti morti che la sabbia ha sepolto, ma, non possono essere scavati e posti nel Sacrario: ora che questo punto del Sahara è egiziano, la terra e quello che vi contiene è di proprietà dell’Egitto. Il sacrario ha come vicino una moschea e da buon vicini hanno trovato un accordo: il muezzin ha diminuito il numero di altoparlanti perché, il suo pubblico è fatto di soldati morti e alcune abitazioni sede della polizia. Un esempio di convivenza interreligiosa. Il custode è un egiziano che insieme alla sua famiglia, gestisce i rapporti con i locali, cura il museo e il sacrario. La visita inizia al mausoleo. L’interno è costituito da un susseguirsi di tombe, molte delle quali ignote che raccolgono i resti dei soldati italiani appartenenti alla Folgore, sconfitti dall’esercito inglese. Il sacrario è enorme e lo ideò il Colonello e ingegniere Paolo Caccia Dominioni che partecipò alla prima e alla seconda battaglia di El-Alamein. Ma è il museo la parte più interessante per capire come sono andate le cose. Intanto, la scelta di indossare le ballerine, si rivela pessima: ho i piedi pieni di sabbia che continua ad accumularsi. (continua)

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La strategia

Come primo passo, mi iscrivo al centro pubblico per l’impiego di Bruxelles: Actiris. 

Il Belgio, l’avevo già accennato in un articolo precedente, è uno Stato federale dalla struttura molto complessa. Tale struttura è composta da entità denominate “Regioni” e “Comunità”. In sintesi, le Regioni sono entità territoriali, simili per molti aspetti alle regioni italiane, o meglio ancora agli Stati americani o ai Länder tedeschi, mentre le Comunità sono entità linguistiche e culturali, legate quindi alla persona e non strettamente al territorio. 

Il Belgio è composto, quindi, da tre regioni (Fiandre, Bruxelles Capitale e Vallonia) e da tre comunità linguistiche (francese, nederlandofona e germanofona). Talvolta Regioni e Comunità linguistiche coincidono e si sovrappongono, altre volte no. 

Per questo motivo, i servizi pubblici per l’impiego sono divisi a loro volta in quattro entità:

ACTIRIS per la regione di Bruxelles Capitale, bilingue francese e nederlandese; FOREM nella regione vallona, di lingua francese; VDAB nella regione delle Fiandre, di lingua nederlandese; ADG per i comuni germanofoni, tutti situati nella provincia di Liegi.

Indipendentemente dalla loro identità regionale e linguistica, tutti i servizi pubblici per l’impiego hanno il compito di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e funzionano più o meno nello stesso modo.

 

Secondo: inizio a creare un profilo online sui siti web delle principali agenzie di lavoro interinali.

 

Terzo: inizio a frequentare due corsi di lingua (inglese e francese) per rafforzare le compentenze linguistiche e avere al tempo stesso le certificazioni per poterle dimostrare. A oggi, non ho ancora smesso di andarci. Mi piace, è utilissimo e, soprattutto, per niente caro. Mi sono appoggiato all’EPFC, un’associazione creata dalla Libera Università di Bruxelles e dalla Camera di Commercio belga. Essendo iscritto ad Actiris, pago 68 euro per un corso di 120 ore. 

 

Quarto: inizio a collaborare con gruppi informali di ragazzi italiani a Bruxelles: Giovani Italiani Bruxelles e La Comune del Belgio. Questi due gruppi sono poi diventati associazioni senza scopo di lucro, regolarmente riconosciuti dallo stato federale belga. 

 

‘Giovani Italiani Bruxelles’ è un progetto indipendente che mira a ottenere politiche concrete per i giovani italiani.  L’iniziativa riunisce giovani italiani con esperienze diverse: stagisti, lavoratori precari, professionisti, disoccupati e studenti, accomunati dall’ interesse per la situazione politica in Italia e in Europa. E’ un’iniziativa apartitica e volontaria: ci si incontra nel tempo libero, non c’è uno staff fisso e non abbiamo finanziamenti. A dirla tutta, non disponiamo nemmeno di una sede.

L’idea è quella di creare uno spazio per lo scambio d’idee e trovare insieme possibili soluzioni ai problemi che i giovani affrontano in Italia e all’estero e che riguardano soprattutto il mondo del lavoro, dell’istruzione, della ricerca e in generale delle politiche giovanili.

 

“La Comune del Belgio” è un gruppo di emigrati che credono che la solidarietà sociale e l’aiuto reciproco siano dimensioni fondamentali per superare al meglio le situazioni difficili e per ricominciare a “costruire un mondo migliore” di quello odierno. In opposizione all’individualismo sfrenato che regna oggi, con questi ragazzi si è iniziato un percorso per ricomporre quel senso di comunità e quei legami sociali che il sistema in cui viviamo hanno disperso. Mettere a disposizione della “Comune” un po’ del proprio tempo è il modo per creare una rete di solidarietà diffusa e facilmente accessibile. L'obiettivo dell’associazione è quello di fornire una guida completa su come affrontare l'esperienza da migrante con meno traumi possibile, condividendo le esperienze personali e i problemi che ognuno ha vissuto sulla propria pelle, di volta in volta. La Comune del Belgio fornisce informazioni, riferimenti, contatti, suggerimenti e piccole consulenze. L’associazione vuole anche gettare una nuova  luce sulla storia dell’emigrazione italiana in Belgio, fotografando la situazione attuale attraverso un questionario.

Collaborare con queste due associazioni, per me ha rappresentato un modo per accrescere le mie competenze organizzative, informatiche, comunicative e di sviluppo di analisi politiche.  E’ un po’ l’occasione per unire la mia esperienza lavorativa in Italia con la mia variegata formazione universitaria (Politecnico, DAMS, Scienze Politiche) e produrre qualche cosa di concreto.

Mi costa molto: sia in termini di tempo, sia in termini di fatica. Ma ne vado fiero. 

Ne vado fiero il doppio perchè è tutto su base volontaria. Ne vado fiero il triplo perchè ho gettato le basi per la “riscossa”!

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I big objects: monumenti d'arte in Australia!;)

I big objects: monumenti d'arte in Australia!;)

Se parti per un viaggio a bordo di un van o di una macchina lungo le coste e nel primo entro terra australiano NON incontrerai spesso tre cose :

1. numerosi autogrill e pompe di benzina sull'autostrada: in media uno ogni 3 o 4 ore!

2. la possibilità di diverse autostrade: ad esempio sulla costa est vi è in pratica solo al Pacific Highway...non si può sbagliare!

3. la logica nella segnaletica stradale: i segnali sembrano messi con una logica ai più sconosciuta...son rari e se indicano...più spesso indicano paesi dai nomi sconosciuti e non d'aiuto per capire la direzione o la distanza dalla meta più conosciuta. 

Quello invece che sarà facile da trovare sono ahimè canguri morti sul ciglio della strada e big objects.

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I canguri sono causa di molti incidenti stradali, non mortali per gli esseri umani, ma spesso gravi per gli animali. E' possibile contare decine di carcasse ogni giorno sui tratti di autostrada meno frequentati...sono spesso investiti nelle ore serali, dove cala il sole e la motorway è buia, di un buio che ci si spaventa. E' infatti sconsigliato di viaggiare di notte in quanto non solo i canguri ma anche i "treni del deserto" escono sulle strade. I treni del deserto sono camion giganti, che arrivano ad occupare più corsie e che in genere portano carichi eccezionali come parti di scafi di transatlantici, gigantesche tubature. Viaggiano a velocità assurde per i loro carichi e vengono spesso anticipati da automobili o moto della polizia che ti bloccano e fanno cenno di accostare come si trattasse di un'ambulanza in arrivo. La prima volta che mi capitò, ero in viaggio con un amica da Cairns a Sydney e ci venne un mezzo infarto...a vederci un giga camion con un gigantesco pezzo di cemento armato arrivare ai 100 all'ora (per l'Australia è una velocità teoricamente fuori legge) sparato verso di noi che eravamo appena state intimate dalla polizia ad accostare al ciglio della strada.

Oltre ai poveri canguri che vengono investiti da automobili nella notte, vi sono anche monumenti particolari che si incontrano sulla superstrada australiana.... sono i big objects. Potete trovare come me e la mia amica durante il nostro primo viaggio sulla costa est il big prawn, la big oyster, the little Ayers Rock, the big mango, the big banana, the big boot, the big pineapple. E chi più ne ha più ne metta. Tutti questi sono oggetti di dimensioni enormi , usati, in genere come attrazione turistica nelle aree remote della costa. O come segnali nei pochi autogrill australiani.

Mi ricordo le risate quando con la mia amica incontrammo il nostro primo big object: the big mango. Leggemmo la storia di quell'ovale colorato a vari strati e rimanemmo sgomente a scoprire il costo dell'opera che di artistico ha ben poco. Eravamo a Bowen, nel Tropic Queensland, terra delle coltivazioni di mango. 

Da lì partì il gioco di fotografare il nostro campervan (un furgone transit della Ford) con tutti i big objects incontrati durante il nostro mese di viaggio. 

Devo dire che il il grande gambero e la piccola ULURU (AYERS ROCK) spaccano!;)

Vi allego una foto di me con il big Mango a cui sono in qualche modo affezionata!...recentemente è stato su tutte le televisioni Australiane in quanto è stato "rubato". Si è scoperto solo dopo qualche settimana che è stato rimosso per una pubblicità per una catena di fast food!;)

 

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Alla prossima!;)

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Un pizzico di storia: HMS Endeavour, si approda in Australia!

Un pizzico di storia: HMS Endeavour, si approda in Australia!

Qualche anno fa, nel 2010 mi trasferii a vivere a Brisbane, nel Queensland (the Sunshine State). 

Per conoscere un pò meglio la città e per pura curiosità turistica, quando venne a trovarmi un amico bolognese di passaggio in città, lo portai a fare un giro su un traghetto che ci portò per una buona ora e mezza per il fiume, il Brisbane River. 

Arrivammo, navigando, davanti alla CITY (il centro di Brisbane è chiamato così anzichè CBD come a Melbourne), nella zona dei palazzoni e grattacieli e ci trovammo davanti una sorpresa: una copia del  HMB Endeavour. L'originale è il brigantino a bordo di cui il Capitano James Cook della Marina Reale Britannica, sbarcò per la prima volta, nel 1770, in Australia, a Botany Bay (area di Sydney).

Da quando è stata varata nel 1993, la copia del HMB Endeavour salpa di porto in porto circumnavigando il mondo... quel giorno era di passaggio a Brisbane! Seppur la maggior parte di noi avrà visto sicuramente film in cui si possono vedere barche e navi antiche con vele spianate al vento... è emozionante vedere dal vivo, a fianco della barca moderna su cui stai navigando, un brigantino che almeno all'apparenza di storia ne ha!

Ci si sente un pò come come nel film i Goonies, quando i ragazzi trovano la barca di Willy l'Orbo...inizi a pensare a come dovessero essere i viaggi a quel tempo, a come le scoperte vennero fatte, a come non sono affatto scontate le cartine geografiche su cui ci si può oggi giorno orientare.

La vera HMB Endeavour infatti navigò i vari oceani per quasi tre anni, dall'Inghilterra alle Indie, al Capo di Buona Speranza, alla Nuova Zelanda, fino alla costa est dell'Australia (allora ancora non troppo conosciuta). 

Storicamente la Marina Britannica mandò i primi esploratori attorno al 1600 ma poichè non vi furono grandi risultati, l'Inghilterra rinunciò a lungo a quelle mete ed aspettò fino allo sbarco di James Cook per avviare una colonizzazione della Terra Australis. James Cook, per conto della Corona, si impadronì di quel pezzo di costa attorno a Botany Bay, chimandolo Nuovo Galles del Sud (ancor al giorno d'oggi è il New South Wales).

Da questa appropriazione di terre, 16 anni dopo dal primo sbarco, venne stabilita in quell'area la prima colonia. Colonia penale in cui i criminali inglesi condannati all'ergastolo venivano spediti dalla madre patria ed obbligati ai lavori forzati. Dalla costruzione di infrastrutture agli scavi minerari. 

Nel 1788, il capitano Arthur Phillip, divenne governatore della colonia e il 26 Gennaio dello stesso anno inaugurò la città di Sydney. 

Il 26 Gennaio di ogni anno da allora si celebra l'Australia Day. Australia Day che crea ogni anno da almeno un decennio manifestazioni di disapprovazione da parte della comunità Aborigene e Torres Islanders e di tutti quelli che sostengono la causa. Difatti se per gli Inglesi dell'epoca, il 26 Gennaio del 1786 fu una "nascita"...per gli Aborigeni che abitano la Terra Australis da circa 50.000 anni fa...quella data altro non è che l'inizio di terrore, violenze e invasioni. 

Mi è capitato, lo scorso 26 Gennaio di camminare in mezzo ai protestanti e di chiedere loro per che cosa protestassero. E una donna Aborigena mi spiegò che per la sua comunità quello era un giorno in cui avvenne il primo genocidio. Tanti infatti furono gli Aborigeni e Torres Islander uccisi durante "la conquista" degli Europei.

Questo incontro ovviamente ha fatto cambiare la mia percezione dell'Australia Day. Seppur festeggiato dai più...è effettivamente ai miei occhi una festività macabra.

 

Per altre notizie storiche potete consultare libri meglio informati di me!,  wikipedia e consiglio la lettura del libro "Un paese bruciato dal sole " di Bill Bryson che in un fare umoristico ed interessante racconta dell'Australia nelle sue più varie forme!;) 

 

 

 

 

 

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Cammina cammina...

Cammina cammina...

Il primo inverno a Bruxelles trascorre lentamente, molto lentamente. 

Quest’anno il clima è rigido, con frequenti nevicate e abbondanti piogge. 

L’umidità e il freddo non sono il massimo per le mie ginocchia, le quali protestano vivacemente e quotidianamente con fitte continue e lancinanti. Anche la mia schiena pare non gradire troppo il clima de la Belgique. 

Gli amici di Torino mi prendono spesso in giro dicendo che son troppo vecchio per fare l’emigrante, che non ho più il fisico etc., altri scherzano sulle mie origini pedemontane: “ Ma come? Tu vieni dalla montagna, non dovresti patire il freddo!” . 

Cari simpaticoni, anche gli eschimesi nascono e abitano in luoghi freddi. Nonostante ciò, non ne ho mai visti in bikini.  

Durante questo periodo cammino molto. Strada per strada, quartiere per quartiere, negozio per negozio e pure tutti i ristoranti e i bar di Bruxelles Centro. 

“Bonjour, mi chiamo Andrea, ho 35 anni e ho lasciato l’Italia e sono qui in cerca di lavoro”. 

Sono centinaia i curricula lasciati. Commesso, lavapiatti, aiuto cuoco, cameriere. 

Sono altrettante le risposte ottenute e altrettanto varie: “Grazie, lasciaci pure il tuo CV qui!” nel migliore dei casi, oppure : “Ci dispiace, siamo al completo col personale e poi c’è la crisi!”. Le peggiori risposte sono sempre inerenti il bilinguismo: “Lei lo sa il fiammingo? Perché qua è obbligatorio sa?”, o la burocrazia: “Ha già il numero di registro nazionale?” gentilmente rispondo: “Guardi ho già avviato le pratiche e lo sto aspettando”, “Eh, ma fin che non ha il numero nazionale non può fare niente qui!”. Evviva….

La cosa più deprimente è che lavoro da quando avevo sedici anni. Alle superiori, durante le vacanze estive andavo a fare manutenzione in un’ industria cartaria delle mie parti. In vita mia, ho sempre studiato o lavorato. Non sono abituato a rimanere fermo. Odio dover farmi mantenere dai miei genitori, mi pesa più di ogni altra cosa. E’ deprimente.

Qua in centro città la situazione non si evolve e i giorni passano, non va bene. 

All’improvviso mi viene in mente una scena, a parer mio surreale, a cui assistetti da ragazzino su un treno: una signora di origini russe, dopo aver avuto una discussione telefonica parecchio animata col marito, raccontava all’amica di essere furiosa nei confronti del marito. La ragione? era di nuovo andato a lavorare in cantiere. 

Compresi che il problema stava nella differenza tra il costo delle scarpe e la paga giornaliera del marito. La signora sosteneva che il marito consumasse più scarpe di quello che avrebbe guadagnato. Avrebbe fatto meglio a restarsene a casa il marito, lei era venuta a lavorare in Italia proprio per mettere da parte dei soldi e non per comprare le scarpe da lavoro per il marito. Era nel pieno della crisi speculativa che ha colpito la Russia nel ‘98. 

Io ho camminato tanto, consumato scarpe, preso un sacco di freddo, ma concluso nulla. 

Subito penso: mi trovo un lavoro qualunque, provvisorio, per mantenermi e nel frattempo cerco altro, qualcosa che mi permetta di costruirmi una stabilità a lungo termine. 

No, non funziona. Bisogna rivedere la strategia iniziale. E’ necessario un salto di qualità. 

Il centro è saturo di gente in cerca di lavoro, bisogna andare verso la periferia. 

Ho una laurea, parlo tre lingue, conosco due mestieri, ho un sacco di esperienze lavorative in differenti settori produttivi e commerciali. 

Decido di ampliare il fronte della ricerca. 

 

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Pizzicati d'oltreoceano

Pizzicati d'oltreoceano

Continuando a seguire il vistoso solco lasciato dall’italianità a Buenos Aires, nel post di oggi voglio raccontarvi una delle maniere in cui il lascito e le rappresentazioni culturali di coloro che qui arrivarono dal Belpaese, tutt’oggi viene reinterpretato e sopravvive. Se tutti sanno che il ballo nazionale da queste parti è il tango, la musica tradizionale argentina vanta comuque molti altri tipi di danza, soprattutto quelli della zona nord del paese. Ma ve ne pure uno nostrano, la tarantela, che indica chiaramente quale sia stata la zona d’Italia che il maggior numero di emigranti ha donato a questo paese.

Ballata nelle feste patronali, nelle manifestazioni celebrative dedicate alla comunità italiana, nelle feste private fra le persone più attempate, che magari hanno imparato dai genitori o dai nonni i passi, la sua riproposizione argentina è assai più semplice e quasi caricaturale di quell’universo ricchissimo che sono le danze popolari del Sud Italia. Ma per gli argentini che volessero realmente conoscere la vera tradizione della musica popolare del Sud Italia, il gruppo ‘A Figliola rappresenta la risposta.

Pochi giorni fa ho avuto l’opportunità di essere invitato ad un loro concerto, nella fastosa cornice del Circolo Italiano, un elegantissimo palazzo situato nel quartiere di Recoleta. Questo gruppo di artisti argentini, molti dei quali, immancabilmente, discendenti di famiglia italiana, hanno dato vita ad uno spettacolo meraviglioso, percorrendo dalla Sicilia al Lazio un vastissimo repertorio di balli, canti e musiche del nostro Sud. Diretti sul palco dalla poliedrica Cecilia Arenillas: musicisita, cantante e soprattutto danzatrice. Il gruppo conta con la bellissima voce della cantante Paula Frondizi, accompagnata dalla versatilità del polistrumentista Federico Salesi, che durate l’esibizione si è alternato in un continuo cambio di strumenti che vanno dalla chitarra battente, al sisco, passando per la ciarameddha e finendo con la fisarmonica. Poi vi sono i tamburelli e le tamorre, il cuore pulsante di questi ritmi, che sono suonati da Gabriele Campanino, Noelia Eterovic, Cristina Pangrazzi e Sergio del Popolo, i quali si alternano fra le sfrenate danze ed i viscerali suoni che scandiscono il misticismo o l’allegrezza che viene da queste balli contadini, che hanno fatto sfogare, innamorare, curare o solamente gioire tutte le persone che, da ormai svariati secoli, si sono lasciate trasportare dalla magia di questi suoni. Pizzica salentina, saltarello laziale, spallata abruzzese, tammurriata campana, tarantella calabrese e friscalettata siciliana sono stati i generi  ballati in questa serata, in cui il pubblico è stato coinvolto, nella parte finale, condividendo il palco con gli artisti. Io, devo ammettere, seppur italiano, conoscevo solo un minima parte della ricchezza culturale che i componenti del gruppo ‘A Figliola hanno portato in scena. Nel frattempo, però, ho incominciato ad indagare...fino al prossimo spettacolo. 

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Taxi!

Taxi!

Il taxi è il mezzo tra i più utilizzati per chi vive ad Alessandria e non possiede un’automobile. I tassisti egiziani guidano modelli di Ford o Fiat degli anni Settanta, hanno il tassametro che non funziona, arredano il proprio veicolo-posto di lavoro con diversi ammennicoli (anche coperte di pelo e copri volanti), posseggono sempre una scatola di fazzolettini monouso (profumatissimi) e si improvvisano guide turistiche. Il mio rapporto con i tassisti è stato quasi sempre conflittuale. Ogni volta la solita storia: contrattare il prezzo, rifiutare i gadget come supplemento alla corsa e dare indicazioni. Nell’ultima cosa, con il tempo, sono diventata brava: nel mio arabo stentato sono riuscita a indicare persino la strada per una casa privata (ero invitata a pranzo quel giorno) e ne sono stata fiera! Per il resto, di battibecchi o di episodi tragicomici ne sono capitati parecchi. Infatti, questo servizio l’ho sempre utilizzato per la mia spesa settimanale, visto che i supermercati non sono in centro. Non di rado mi capitava, soprattutto andando verso un centro commerciale, di vedere il prezzo pattuito in partenza, aumentato una volta arrivata a destinazione: la lotta era dura, ma al mio secco “no, non pago di più”, arretravano. b2ap3_thumbnail_foto-interno-articolo-taxi.jpgQualcuno mi diceva che, avendo l’abitudine a viaggiar sola, non mi conveniva troppo essere testarda, ma rispondevo che una cifra pattuita non può essere modificata successivamente. Ammetto che oltre ad esser testarda ero anche incosciente. Gli episodi che maggiormente ricordo e che mi hanno divertito sono stati due. Il primo è avvenuto al mio ritorno dal Cairo dopo la festa del sacrificio. Ero alla stazione ferroviaria e non essendo molto distante, ma con una valigia, decido di chiamare un taxi per 5 lire. Riesco ad accordarmi, ma verso casa il tassista mi propone di pagare 8 lire. Inizia, con garbo, un battibecco infinito (in realtà di pochi minuti, considerando il percorso e la velocità alla quale andava) che si conclude con il portiere, che trovandosi fuori dal condominio mi chiede cosa capita, e invita il conducente ad andare via il più presto possibile. Con la ramanzina finale: <<Lei vive sola e viaggia sola, non ha paura qualche volta?>>.

Il secondo episodio è molto divertente. Ero in giro con Christina e decidiamo di prendere un taxi per andare a visitare la tenuta di Montaza. Il tassista è molto simpatico e prende anche la mia amica per straniera! Il viaggio diventa come una riunione per mostrare i prodotti e venderli. Nel suo buon inglese ci invita a comprare di tutto: fazzoletti, portachiavi e una guida turistica in tedesco della città. Rivolgendosi alla sottoscritta, afferma, con molta convinzione che aveva capito che ero tedesca perché non ero abbronzata ma solo rossa in viso.  

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